Giochi da tavolo e differenziazione in classe

Quando si parla di differenziazione didattica in ambito scolastico c’è una certa difficoltà a trovare una definizione unanime e comprendere l’efficacia del tutto.

Vige una certa ignoranza e confusione in merito.

In ambito accademico, la stessa Tomlinson, “colei che ha dato il via ed è riconosciuta a livello internazionale come l’ideatrice della differenziazione didattica” (d’Alonzo in: Tomlinson, p. 8), afferma:
“Imparare a differenziare l’istruzione non è una ricerca facile e veloce.”
(Tomlinson in: d’Alonzo & Monauni, p. 27)

Oltretutto: “Non c’è un unico ‘modo giusto’ per mettere in atto efficacemente la differenziazione didattica”.
(Tomlinson, p. 21)

Ciò che però sappiamo è che differenziare in modo efficace non significa differenziare tutto il tempo e non significa nemmeno prevedere un’istruzione individualizzata per ogni singolo studente (sarebbe una pazzia sia da un punto di vista operativo che da un punto di vista educativo).

“Gli insegnanti non devono differenziare tutti gli elementi in tutti i modi possibili in ogni attività. Un’efficace differenziazione didattica include molti momenti in cui le attività non sono differenziate in classe“.
(Tomlinson, p. 34)

“La differenziazione non è un percorso di istruzione individualizzato per ogni singolo studente o un setting di apprendimento dove ognuno esegue compiti adatti a lui/lei.”
(d’Alonzo, Ognuno è speciale, p. 51)

“Sarebbe un assurdo dal punto di vista operativo pensare che ogni alunno possa avere il proprio Piano di Studio, composto da tante UdA individuali. […] Se personalizzare volesse dire creare delle isole, questo sarebbe la negazione dell’educazione e porterebbe all’emarginazione sociale.”
(Petracca in: d’Alonzo, Ognuno è speciale, p. 138)

“Al docente, per differenziare, non occorre avere dati singoli e disaggregati […], non è necessario entrare nello specifico e in modo dettagliato nella rivelazione micrometrica delle caratteristiche di ogni singolo alunno, ma individuare nuclei di Profili emergenti, nei confronti dei quali mettere in atto un processo di differenziazione didattica. Il livello di dettaglio di analisi può casomai aumentare qualora si avertisse la necessità di approfondire la conoscenza di alunni che manifestano BES”.
(d’Alonzo, Ognuno è speciale, p. 82)

In altri termini, ciò che potrebbe aver senso fare è progettare per i “bordi” della classe al posto di una progettazione per una presunta mediana di classe (d’Alonzo & Monauni, p. 74), considerando macro-gruppi di allievi più che singoli allievi e adattarsi di volta in volta al contesto e alle situazioni che si vengono a creare.

Tra le strategie da poter utilizzare nella differenziazione didattica abbiamo varie opzioni (d’Alonzo & Monauni, p. 195; d’Alonzo, Ognuno è speciale, pp. 92-94), alcune più efficaci di altre.

Nello specifico si parla di riduzione di tempi e di contenuti, materiale facilitante, aggiunte e potenziamenti,
stratificazione (attività, compiti ed esercizi articolati su differenti gradi di complessità),
cooperative learning, lavoro di coppie, peer tutoring,
stazioni di lavoro, attività manuali, simulazioni,
schemi e mappe concettuali,
centri di interesse, menu planner, tabelle a scelta multipla,
ecc.

Il consiglio che viene dato nella letteratura è di iniziare implementando una strategia alla volta, per poi eventualmente abbinare più strategie assieme (d’Alonzo & Monauni, p. 193).

In termini di efficacia, le meta-analisi di John Hattie ci danno dei preziosi indizi (Hattie, pp. 266-268).

Il motivo per cui dalla lista soprastante sono state tranciate alcune strategie, è perché secondo la evidence based education non risultano particolarmente efficaci e quindi sono trascurabili.

  • Strategie di differenziazione con bassa efficacia: student control over learning, ability grouping, multi-grade/multi-age classes, matching style of learning, individualized instruction.
  • Strategie di differenziazione con media efficacia: Cooperative Learning, Mastery Learning (dare a tutti il tempo necessario per imparare un argomento o una competenza, prima di passare ad altro), peer tutoring, Keller’s Master Learning (tramite materiale scritto, ognuno procede alla sua velocità seguendo a volte una sequenza libera degli argomenti da affrontare), play programs, time on task, adjunct aids, simulations.
  • Strategie di differenziazione con alta efficacia: concept mapping.

Lasciare scegliere agli studenti quale attività svolgere, è la strategia di differenziazione con la più bassa efficacia in assoluto.

“The empirical findings concerning the benefits of choice are equivocal and confusing. […]
Clarification of relevance to students’ goals predicts positive affect and engagement better than the amount of choice given to students.”
(Katz & Assor in: Moè, p. 144)

Creare menu planner e tabelle a scelta multipla è esoso, costa parecchia fatica, senza che ci siano dei reali benefici in termini di efficacia. La domanda che uno dunque potrebbe legittimamente porsi è: perché farli?

Il problema dell’eccessivo carico di lavoro causato dalle strategie di differenziazione, lo si evince anche analizzando due strategie di differenziazione prese in considerazione da Hattie, ma assenti nella letteratura contemporanea legata alla differenziazione. Il Mastery Learning e il Keller’s Master Learning sono due buoni esempi di differenziazione efficace, ma caduti in disuso a causa – tra le varie cose – dell’eccessiva mole di lavoro che richiedevano ai docenti. Questo aspetto non è da sottovalutare. È facile come quadro pretendere dai docenti metodologie belle sulla carta, ma se poi alla prova dei fatti è una sfida che porta i docenti allo stremo delle forze, il rischio è di ottenere un fenomeno mai visto prima, quello della fuga dall’insegnamento (d’Alonzo in: Tomlinson, p. 5), con conseguenze di fatto catastrofiche per gli studenti.

Dalle meta-analisi di Hattie si può inoltre notare come le pluri-classi siano poco performanti, come anche la tradizione presente nelle scuole ticinesi di svolgere attività con gruppi di livello di competenza, in base alle abilità degli allievi (soprattutto nel primo ciclo). Una buona differenziazione consiste nel variare modalità di insegnamento (a coppie, individualmente, a grande gruppo, ecc.) cercando di far interagire tra di loro bambini della stessa età con livelli di competenza diversi.

Sempre secondo Hattie, proporre attività ludiche in ambito scolastico risulta essere una strategia efficace.

I giochi da tavolo, se proposti in forma cooperativa, sfruttando lavori a coppie, schemi e mappe concettuali (magari mentre si assimilano i regolamenti), possono risultare uno strumento valido e ragionevole.

Di norma, inoltre, è meglio se è il docente a decidere quali giochi da tavolo svolgere, spiegando il motivo agli allievi, e chi giocherà con chi (coppie eterogenee). Tramite le stazioni di lavoro, si possono proporre più giochi alla volta (non andrei oltre ai tre giochi diversi), con eventualmente una stazione jolly da sfruttare come potenziamento.
Effettuando un esempio concreto di una classe di 18 allievi (la media a livello ticinese è di 18 allievi per classe): alla prima postazione ci sono tre copie del gioco A con tre coppie di allievi, alla seconda postazione ci sono tre copie del gioco B con tre coppie di allievi, alla terza postazione ci sono tre copie del gioco C con tre coppie di allievi. La stazione jolly è sfruttabile in caso di necessità. Ogni tot minuti si cambia postazione.

In questo modo per il docente proporre giochi da tavolo risulta fattibile (anche se è da solo) ed è un modo interessante di differenziare l’attività didattica, senza che il tutto richieda uno sforzo eccessivo.

Bibliografia:
– Luigi d’Alonzo, La differenziazione didattica per l’inclusione. Metodi, strategie, attività, Erickson, 2016
– Luigi d’Alonzo (A cura di), Ognuno è speciale. Strategie per la didattica differenziata, Pearson, 2019
– Luigi d’Alonzo & Anna Monauni, Che cos’è la differenziazione didattica. Per una scuola inclusiva ed innovativa, Scholé, 2021
– Carol Ann Tomlinson, La differenziazione didattica in classe. Per rispondere ai bisogni di tutti gli alunni, Scholé, 2022
– John Hattie, Visible Learning for Teachers. Maximizing Impact on Learning, Routledge, 2012
– Angelica Moè, Il piacere di imparare e di insegnare. Pensieri, ambienti e persone motivanti, 2019

Prova questi giochi: strumento di ricerca

Capita sovente di avere a che fare con persone che amano alla follia un gioco da tavolo specifico e dopo un po’ vogliono sapere cos’altro c’è in giro di simile a quel prodotto.

Una possibile opzione è chiedere consigli a chi ha un’ampia conoscenza del mondo dei giochi da tavolo. Noi in tal senso restiamo a disposizione per eventuali suggerimenti.

Dato però che è sempre più ragionevole insegnare a pescare che dare il pesce in mano e basta, in questo articolo vogliamo segnalarvi uno strumento che può risultare particolarmente utile e pratico.

Si tratta del sito trythesegames.com.

In esso c’è la possibilità di inserire il gioco da tavolo che apprezziamo particolarmente e vedere quali altri titoli esistono che danno esperienze di gioco simili.

Svolgendo ricerche mirate si possono ottenere risultati affidabili e sensati.

Buona ricerca e buon gioco.

La società dei consumi e il mercato dei giochi da tavolo: la fine sta arrivando?

Viviamo ormai da tempo in una società dell’usa e getta, degli sprechi, dell’obsolescenza programmata, del consumismo più sfrenato e in modo più o meno consapevole appoggiamo quasi tutti l’idea che ci possa e debba essere una crescita economica infinita. Guai a prendere in considerazione approcci alternativi.

Chi decide di investire soldi, adotta strategie per massimizzare i profitti, rischiando possibilmente il meno possibile.

Tutto questo per decenni ha portato sempre più benessere e ha migliorato lo standard di vita generale. Il problema è che rischia di avere delle ripercussioni particolarmente negative a lungo termine.

Ecco alcuni esempi concreti in merito:

La storia del fast fashion dimostra come puntare tutto su vestiti sempre meno cari e accessibili immediatamente, abbia causato e causi tuttora problemi enormi di sostenibilità, montagne di rifiuti, sfruttamento in ambito lavorativo, ecc. Questa esigenza di acquistare sempre cose nuove sembra purtroppo aver afflitto anche il mondo dei giochi da tavolo. Avere una collezione di centinaia di titoli pare non bastare più. Bisogna sempre e comunque andare a caccia delle ultime novità. Ma è veramente un bene?

Uno degli aspetti drammatici è che i tentativi di rendere queste e altre attività più sostenibili hanno dimostrato serie lacune.

Nell’ambito alimentare, ad esempio, la situazione purtroppo non è migliore. La nascita e la diffusione dei supermercati ci ha dato la convinzione che il cibo sia sempre e comunque disponibile, con conseguenze catastrofiche (per chi volesse approfondire la tematica, può ad esempio vedere qui). Lo stile di vita attuale occidentale (sia alimentare che non) non è purtroppo realmente sostenibile, dati alla mano, e i tentativi di rendere ad esempio la pesca sostenibile (ma potremmo anche parlare del consumo della carne o dei vegetali o dei giochi da tavolo) sono per il momento miseramente falliti.

Il problema di fondo sembra essere il sistema stesso in cui viviamo.

Fintanto che rimarrà la convinzione che la crescita economica debba essere infinita per garantire il benessere umano, sarà difficile ottenere dei veri cambiamenti.

In termini relativi l’economia globale si è mossa nella direzione di una maggiore sostenibilità, ma in termini assoluti non ha mostrato negli anni alcuna tendenza verso una crescita deliberatamente più lenta e la decrescita rimane un argomento caro agli economisti ecologici, non un principio guida per aziende o governi. Di conseguenza, possiamo solo ipotizzare quando e come potremmo essere in grado di porre fine alla crescita materiale e forgiare una nuova società capace di sopravvivere senza adorare il dio impossibile del consumo che aumenta sempre: nessun paese fino a oggi si è impegnato a seguire una strada del genere. Due generazioni dopo che tali preoccupazioni sono diventate di dominio pubblico, l’economia cosiddetta ortodossa non ha ancora nessun modello migliore da seguire di quello basato sulla crescita continua.
[…]
Una piccola minoranza di economisti, e molti storici, ambientalisti e gli studenti dei sistemi complessi […] riconoscono l’ovvio, cioè l’impossibilità di una crescita infinita su un pianeta finito, ma i passi che abbiamo compiuto finora sono stati insignificanti e largamente inefficaci rispetto all’ubiquità e alla portata dei rimedi temporanei e delle eventuali soluzioni di lunga durata necessari.

(Vaclav Smil, Crescita. Dai microrganismi alle megalopoli, Hoepli, Milano 2022)

Persino prendendo in considerazione l’Agenda 2030 con i suoi 17 obiettivi di sviluppo sostenibile, si può notare come l’obiettivo numero 8 continui a prevedere una crescita continua dell’economia.

Termini come “economia circolare” o “economia della post-crescita” non vengono ancora seriamente presi in considerazione come alternative. Si continua a sperare nell’innovazione e nel progresso tecnologico come soluzione a tutti i problemi.

Tornando a parlare del mercato dei giochi da tavolo, attualmente sembra esserci un periodo di stagnazione. Ogni anno escono talmente tante novità (più di 1’000 nuovi giochi ogni anno), che di idee realmente innovative se ne vedono molto poche. È un riciclare vecchie idee proponendole in veste nuova, cercando di creare hype o sfruttando sistemi come kickstarter. Chi gioca a giochi da tavolo da decenni, segue tendenzialmente con sempre meno interesse l’evoluzione del mercato e si focalizza su quello che nel tempo si è dimostrato essere un prodotto valido (parliamo di centinaia di giochi da tavolo differenti che hanno resistito alla prova del tempo). Di tutto il resto se ne poteva probabilmente anche fare a meno.

Seguire ogni minimo hype e acquistare annualmente centinaia di giochi è una prassi che chiunque potrebbe e/o dovrebbe provare a mettere in discussione. Lo Youtuber tedesco del canale Brettballett è passato ad esempio da una collezione di 3’000 e passa giochi a una collezione di meno di 300 giochi. Ad un certo punto si è reso conto che la situazione non era più sostenibile, per non dire deleteria. E ci ha dato un taglio.

Qualcosa sembra muoversi anche tra gli editori dei giochi da tavolo. Ce ne sono sempre di più che lanciano nuovi giochi rinunciando a mettere componenti in plastica, perché sì, dal legno si era passati alla plastica anche nei giochi di società, senza rendersi conto che la plastica rappresenta un problema per il Pianeta e che probabilmente in futuro bisognerà fare un grande passo indietro.

Anche un utilizzo responsabile e sostenibile della plastica sembra ahimè una lontana utopia.

Ma quindi, di fatto, cosa possiamo fare?

Le nuove generazioni sembrano essere sempre più consapevoli della necessità di comportarsi in maniera sostenibile per poter continuare a vivere in modo adeguato sul nostro Pianeta.

La speranza è che si possa trovare un modo sano, lungimirante e costruttivo di approcciare sia al nostro hobby legato ai giochi da tavolo sia (soprattutto) a tutto il resto. Cambiare non è mai semplice, ma se c’è una cosa che l’essere umano ha dimostrato di saper fare più che bene è proprio questo: adattarsi per sopravvivere.

Quanto complessa sia la situazione, lo si può evincere da quest’ultimo documentario. Soluzioni semplici purtroppo non esistono (e ovviamente nemmeno idee unanimi).

Siamo giunti alla fine di questa riflessione strettamente personale. Non mi resta ora che tornare a giocare a CO2 di Vital Lacerda, prima edizione (competitiva) e sperare che il mondo non vada a rotoli per l’ennesima volta.

Possibili approfondimenti:
– Silvia Lazzaris è una giornalista di Will Media che affronta varie tematiche legate alla sostenibilità in modo avvincente.
– Vaclav Smil è un pensatore globale che fa sempre riflettere con i suoi libri.
– I servizi presenti su Arte danno di norma interessanti spunti su varie tematiche.
– I documentari Seaspiracy e Cowspiracy su Netflix fanno capire come non ci si possa più fidare ciecamente nemmeno delle organizzazioni non governative (bisogna ormai analizzare qualsiasi cosa con pensiero critico).

Bonsai: la bellezza degli alberi in miniatura

Autore della recensione: Samuele Ferri.

Un sottile ma robusto fusto, piccole foglioline, delicati fiori rosa e teneri succosi frutti. Questi sono gli elementi di un bonsai.

In Bonsai (edito in italiano da DV Giochi) gli autori Rosaria Battiato, Massimo Borzì e Martino Chiacchiera ripropongono ai giocatori l’esperienza zen della coltivazione di queste affascinanti piante. Il gioco si concentra sul piazzamento strategico delle tessere esagonali che rappresentano i quattro elementi citati prima, al fine di fare più punti a fine partita. Durante il proprio turno, ogni giocatore può scegliere tra: “meditare”, ossia pescare una carta che permetterà di acquisire tessere, oppure “coltivare”, cioè, piazzare le tessere precedentemente acquisite per far crescere il proprio alberello. Il gioco prosegue finché il mazzo di carte non si esaurisce.

Uno dei pregi assoluti di questo gioco, oltre alla sua semplicità, è la varietà e la diversificazione degli alberi che i giocatori possono creare; non esistono due alberi uguali in ogni partita. Inoltre, l’accuratezza dei disegni di Davood Moghaddami è fenomenale e ogni carta sembra un piccolo quadro.

Una partita a Bonsai dura in media quaranta minuti, più cinque per le spiegazioni, che è perfettamente in linea con altri titoli della stessa categoria. Tuttavia, discutendo con altri giocatori che hanno fatto numerose partite, ci siamo resi conto che l’obiettivo del gioco sia diventato per noi quasi unicamente perfezionare l’estetica del bonsai, trascurando i punti vittoria e volendo continuare ad abbellire la nostra opera anche dopo il termine della partita.

Il gioco è quindi consigliato a chi cerca un’esperienza di gioco semplice e intrigante, o a chi vuole sbizzarrire la propria fantasia (su questa linea consigliamo anche titoli come Canvas o Kanagawa).

Da una prospettiva più tecnica, il gioco risulta ben strutturato nonostante l’aleatorietà della pesca delle carte: infatti ogni giocatore ha sempre la possibilità di giocare in modo da non rovinare la bellezza della propria creazione.

Particolarmente interessante è il sistema di punteggio, che spinge i giocatori a riflettere su come allineare le tessere per massimizzare i loro punti. Ad esempio, i “fiori” valgono un punto per ogni lato libero attorno a loro, mentre i “frutti” valgono sette punti ciascuno ma non possono essere piazzati adiacenti ad altri frutti.

Un altro dettaglio interessante sono le “statistiche” dei giocatori. All’inizio della partita, ognuno può conservare al massimo cinque tessere nella propria riserva e, con l’azione di coltivare, piazzare al massimo tre tessere (un tronco, una foglia e una libera a scelta). Questi numeri possono essere aumentati con apposite carte del mazzo pescate durante l’azione di meditare. Il limite iniziale di cinque tessere è un po’ restrittivo e i giocatori fanno a gara per accaparrarsi le carte che lo aumentano.

In conclusione, Bonsai è un gioco estremamente soddisfacente e ne consiglio vivamente l’acquisto se vi piacciono giochi in stile Century o Azul.

Minimalismo digitale e giochi da tavolo

Di recente ho avuto modo di leggere l’interessante libro Minimalismo digitale. Rimettere a fuoco la propria vita in un mondo pieno di distrazioni di Cal Newport.

È ormai cosa risaputa che “l’utilizzo compulsivo è alla base del business plan di molti social media” (Newport, p. 11). Esistono documentari in merito, come ad esempio The Social Dilemma, ci sono governi che si chiedono se abbia senso vietare certi social per il benessere della popolazione e dei giovani, esistono manifesti del tipo “Das Slow Media Manifest”.

Nel suo libro, Newport prova a vedere quali sono le argomentazioni a favore di un minimalismo digitale, precisando che “un’azione decisa è necessaria per trasformare alla radice il rapporto con la tecnologia” (Newport, p. 15). Lui nel concreto parla di un processo di allontanamento di ben trenta giorni da qualunque attività online facoltativa. Dopodiché, uno può valutare di reintrodurre lentamente un numero ridotto di attività online, selezionate con cura, in grado di offrire vantaggi importanti.

Tutto ciò è fattibile però, secondo Newport, a condizione che prima si capisca l’importanza di coltivare un tempo libero di qualità.

“Le tecnologie, in molti casi, sono progettate specificamente per innescare una dipendenza comportamentale”. (Newport, p. 40)

Questo significa che senza una strategia precisa, riuscire a liberarsi dalle forze manipolatorie dei social media può risultare una sfida pressoché impossibile.

“Molte persone utilizzano compulsivamente il cellulare per nascondere un vuoto: non si sono, infatti, impegnate a creare attività e divertimenti piacevoli per il proprio tempo libero. Se riduciamo le facili distrazioni senza colmare il vuoto, la vita può diventare insapore e ciò, con molta probabilità, ci allontanerà dalla scelta di adottare il minimalismo digitale.” (Newport, pp. 80-81)

Bisogna quindi fin da subito avere in chiaro come sostituire le tecnologie, per evitare di ritrovarsi in preda all’ansia e alla noia.

“I minimalisti digitali che hanno più successo preferiscono cominciare trasformando il proprio tempo libero, dedicandosi cioè ad attività di alta qualità, prima di eliminare le proprie abitudini digitali.” (Newport, p. 166)

Tra i vari hobby virtuosi che vengono citati da Newport, appaiono ad un certo punto anche i giochi da tavolo, ebbene sì.

Il motivo per cui i giochi da tavolo aiutano a vivere una vita di qualità, senza eccessi legati alle tecnologie, è presto detto: sono in grado di far vivere esperienze sociali intense.

I giochi da tavolo non sono ovviamente l’unico hobby che uno può prendere in considerazione per sostituire la tecnologia. Si possono valutare varie attività, tra cui sport, volontariato, attività creative e manuali, danza o suonare musica, gruppi di lettura, circoli di discussione, ecc. Le opzioni sono veramente tante, tutte strettamente analogiche.

Il libro di Newport offre tanti spunti accattivanti.

“L’aspetto chiave è che l’utilizzo dei social media tende ad allontanare le persone dalla socializzazione nel mondo reale, che ha un valore molto più grande.” (Newport, p. 141)

“Sostituire le proprie relazioni nel mondo reale con l’utilizzo dei social media è dannoso per il proprio benessere”. (Shakya)

Quindi ben vengano i giochi da tavolo e l’intrattenimento analogico in generale.

Per chi volesse approfondire ulteriormente la questione:

  • Cal Newport, Minimalismo digitale. Rimettere a fuoco la propria vita in un mondo pieno di distrazioni, Roi Edizioni, 2019.
  • David Sax, The Revenge of Analog: Real Things and Why They Matter, PublicAffairs, 2016.

Negozi di giochi da tavolo in Ticino: vari cambiamenti

Il negozio di giochi da tavolo Camelot Store di Lugano ha annunciato qualche tempo fa la sua chiusura. Il negozio Sogni di Carta di Locarno è ora in mano al negozio Lo Stregatto e ha dunque cambiato proprietario. Un negozio ticinese esclusivamene online è apparso all’orizzonte e si chiama Giochi Stellari. A Massagno è prevista l’apertura a breve del negozio di giochi Tavola Rotonda.

Nel giro di un anno ci sono stati diversi cambiamenti.

La concorrenza agguerrita dei negozi online italiani non rende di certo facile il compito di chi si avventura nell’impresa di aprire un negozio di giochi da tavolo in Ticino. Noi di Giochintavola siamo indipendenti da simili realtà, ma dato che esse contribuiscono alla diffusione dell’hobby, troviamo giusto parlarne (nel caso in cui mancassero alcune realtà, ce ne scusiamo e invitiamo eventualmente a segnalarlo tra i commenti).

La situazione attuale mostra come tutti e tre i poli del Ticino sono coperti da negozi specializzati in giochi da tavolo:

Luganese: Tavola Rotonda
Bellinzonese: Toni Balocchi
Locarnese: Lo Stregatto

Ora esiste anche un’opzione ticinese esclusivamente online: Giochi Stellari

Tutto ciò fa ben sperare per una diffusione sempre maggiore della passione dei giochi da tavolo.

The Mandalorian: Adventures

L’autore di giochi da tavolo Corey Konieczka è famoso per la sua capacità di creare titoli validi e interessanti su licenza (da film o serie tv). Star Wars: Rebellion e Battlestar Galactica sono i due esempi più lampanti.

È però altrettanto vero che da quando non lavora più per la casa editrice Fantasy Flight Games, sta provando a creare titoli originali e diversi dal solito – aspetto di per sé positivo -, che non sempre tuttavia hanno esiti positivi.

The Mandalorian è una delle serie tv di Disney+ che più ha affascinato gli spettatori. Chissà se Konieczka è riuscito a creare anche questa volta un prodotto valido in forma di gioco da tavolo.

Titolo da seguire e monitorare.

Harmonies: possibile gioco dell’anno?

È da qualche settimana che si sente parlare nel mondo dei giochi da tavolo di Harmonies. C’è chi fa il confronto con Cascadia, chi con Azul, chi invece con Reef.
Al di là dei confronti con i giochi del passato, ciò che colpisce sono le illustrazioni mozzafiato e la qualità dei materiali.
Bisognerà sicuramente capire se il flusso di gioco merita anch’esso. Per il momento su boardgamegeek.com la media voti di questo titolo è molto alta.
Semplice hype o gioco che anche con il tempo manterrà le sue promesse?

Da seguire e monitorare.

Perché i giochi cooperativi sono meglio dei giochi competitivi?

Proporre giochi da tavolo in ambito scolastico è una sfida impegnativa. I dilemmi che possono avere i docenti sono parecchi. Uno è sicuramente quello se è meglio proporre giochi cooperativi o competitivi o entrambe le tipologie.

Cosa ci dicono le meta-analisi in merito all’apprendimento cooperativo vs. apprendimento competitivo?

John Hattie ha riassunto gli esiti delle ricerche accademiche svolte in ambito educativo facendo presente vari aspetti, tra cui quanto segue:

L’apprendimento cooperativo è più performante dell’apprendimento competitivo. Questo concretamente significa che per i docenti è consigliabile creare un clima di classe cooperativo, piuttosto che competitivo, e quindi di conseguenza proporre giochi cooperativi.

Perché mai le cose stanno così? Qual è il problema di fondo dell’approccio competitivo?

La competizione stimola una convinzione entitaria [fissa, stabile nel tempo, ndr], obiettivi di prestazione [al posto di obiettivi di padronanza, ndr], l’attribuzione del fallimento alla mancanza di capacità [al posto dell’eventuale mancanza di impegno o di strategie da rivedere, ndr] e un generale abbassamento delle diverse percezioni di abilità (autoefficacia, senso del valore di sé). Tutti questi aspetti forniscono la base per un calo della motivazione ad apprendere, sostengono il desiderio di non impegnarsi e quindi un approccio alla comprensione e allo studio meno efficace. Inoltre, fanno aumentare il timore di fallire (in una situazione competitiva solo alcuni vincono) e l’ansia da prestazione. Neppure i ‘vincitori’ sono motivati per le giuste ragioni, cioè non imparano per il gusto di imparare, continuano a dubitare delle proprie abilità, possono impegnarsi in modo eccessivo e spasmodico oppure ritirare l’impegno seguendo una logica del ‘massimo risultato con il minimo sforzo’. Se la logica competitiva è difficile da sradicare, è possibile pensare a una competizione con se stessi che, pur non essendo la stessa cosa di una vera cooperazione nei processi d’apprendimento, ha come obiettivo il miglioramento rispetto alle proprie prestazioni precedenti (e quindi l’apprendimento) piuttosto che il superare gli altri o standard esterni. La situazione ideale sarebbe quella di un clima cooperativo in cui vi è il reciproco aiuto fra studenti più o meno bravi e all’interno del quale le prestazioni del singolo vengono valutate come progressi o nuove acquisizioni rispetto a momenti precedenti“.
(Moè, p. 165)

Una delle criticità più importanti dell’approccio competitivo, è quindi il fatto che favorisce una convinzione entitaria/fissa che bene non fa ai bambini. Ma quali sono le alternative?

Mentalità fissa vs. mentalità di crescita (Carol Dweck)

Chi ha una mentalità fissa, pensa di dover dimostrare il suo livello e tende a temere il nuovo e anche il cambiamento, vive negativamente il successo. Attribuisce gli insuccessi alla convinzione di non essere capace, a mancare d’abilità, ha una scarsa persistenza e prova facilmente emozioni spiacevoli come ansia, rabbia o noia. Chi ha una mentalità di crescita, invece, crede di poter migliorare, di avere margine di crescita, è alla ricerca di situazioni nuove e sfidanti, diverse, da padroneggiare, così da potersi sentire soddisfatto. L’eventualità di sbagliare non spaventa, anzi può suggerire modalità per ritentare, sostenute da attese di miglioramento.
Le aspettative e le convinzioni che hanno gli studenti su se stessi sono il fattore più importante in assoluto per garantire un apprendimento efficace (Hattie, p. 266).
Applicato al mondo dei giochi da tavolo, ciò significa concretamente quanto segue: svolgere giochi cooperativi, aiuta a creare un clima di sostegno tra gli allievi e una mentalità di crescita, fondamentale per la riuscita. Si prova tutti assieme a migliorare per ottenere risultati migliori: uno incoraggia l’altro. Quando si fallisce, lo si fa assieme, ma il desiderio di padronanza spinge a tentare di nuovo, cercando nuove strategie più efficaci.
Quando invece si gioca a titoli competitivi, il rischio di vedere sempre i soliti giocatori perdere è più che concreto, i commenti dei compagni vincenti potrebbero non sempre essere lusinghieri, le convinzioni che uno ha di se stesso potrebbero vacillare e uno potrebbe iniziare a pensare di non avere le capacità di migliorare, di non essere bravo e di non poter fare nulla per cambiare.
Il punto è che, come abbiamo visto, credere di riuscire, pensare di poter migliorare e padroneggiare i compiti, sono aspetti fondamentali in tenera età. Solo in questo modo si può sperare di vedere uno sviluppo adeguato.

Il supporto conta, come anche il mancato sostegno. L’esito ottimale vede adulti (o altre persone significative) che favoriscono e non ostacolano il ‘provarci’ e la spinta a ‘fare da soli’. Dal sostegno reiterato nel tempo nasce la tendenza a sentirsi attratti dai compiti in cui esercitare la padronanza in modo piuttosto stabile, anche e soprattutto in assenza di altri che sostengono o frenano i tentativi di padronanza. Si sente competente chi fa.
(Moè, pp. 53-54)

Un altro aspetto importante da tenere in considerazione è il diritto di sbagliare. Percepire l’errore come qualcosa da evitare o di cui vergognarsi, non giova a nessuno.

Il diritto di sbagliare

Vi è un diritto all’errore e all’insuccesso che va riconosciuto e valorizzato. A scuola, chi fa tutto giusto significa che ‘sapeva già’ e quindi non ha imparato. Diversamente, chi sbaglia e poi rimedia, capisce cos’era da fare, finalizza l’obiettivo che è apprendere cose nuove, che ancora non si sapevano. Fra queste, imparare a sbagliare e a riprendere in mano il problema per giungere a una possibile soluzione è un esercizio importante e addirittura imprescindibile per rafforzare la percezione di competenza ovvero di essere ‘padroni della situazione’.
Far sentire competenti, sostenendo i tentativi anche non sempre completamente riusciti e stando in una posizione di supporto e non di sostituzione non farà che incrementare il benessere.
Conta molto anche il sostegno di natura emotiva.

(Moè, p. 54)

Non far pesare la vittoria e la sconfitta

Nel Piano di studio della scuola dell’obbligo ticinese del 2015, nella materia che più di ogni altra dà peso e importanza al gioco come momento di crescita dell’individuo, si fa presente un aspetto molto importante: il docente non deve dare importanza alla memoria di vittoria e sconfitta nei momenti di gioco competitivo, soprattutto quando si lavora con bambini sotto gli 8 anni, ma anche fino ai 10 anni.

Se da un lato si dà per scontato che il docente sia consapevole degli effetti negativi che può avere il gioco competitivo portato agli estremi, una simile consapevolezza tra i bambini è sicuramente meno presente. Ciò significa concretamente che adottare giochi cooperativi risulta più semplice da gestire per l’educatore, il quale non può essere presente ovunque durante le attività e al di fuori del contesto scolastico quando i bambini continuano magari a parlare di quanto accaduto.

Passiamo ora ad analizzare alcune delle criticità dell’approccio cooperativo, perché credere che cooperare sia facile è un errore.

Le criticità dell’approccio cooperativo

Roberto Trinchero, ricercatore che con il suo modello RIZA ha influenzato profondamente il Piano di studio della scuola dell’obbligo ticinese, parla di vari risultati di ricerca utili per progettare attività didattiche efficaci. Quando affronta la questione dell’apprendimento cooperativo, afferma le seguenti cose:

I lavori di gruppo sono efficaci, ma solo se il gruppo è piccolissimo (coppia o gruppo di tre) e i ruoli all’interno del gruppo sono strutturati (ognuno ha il proprio compito e le proprie responsabilità). Questo risultato invita a utilizzare in classe vere e proprie strategie di apprendimento cooperativo e non generici lavori di gruppo. Indicazioni operative: far lavorare in coppia gli alunni, strutturare i ruoli all’interno della coppia (ad esempio, il relatore e l’ideatore), usare tecniche di apprendimento cooperativo (ad esempio il Jigsaw, il peer tutoring, il reciprocal teaching, il peer explaining).
(Trinchero, p. 49)

Decidere dunque di proporre giochi da tavolo formando grandi gruppi, può non essere per forza di cose il modo migliore per iniziare l’esperienza ludica (potrebbe eventualmente essere un obiettivo a cui tendere nel tempo dopo aver consolidato determinate competenze trasversali).

Il motivo per cui lavorare a coppie è più semplice ed efficace rispetto a lavorare a gruppi grandi è presto detto: all’aumentare del numero di individui, aumenta anche in modo esponenziale il numero di interazioni tra gli individui presenti. Questo richiede delle competenze sociali sempre più importanti e rende più difficile indentificare le eventuali difficoltà sorte.

Quindi, riassumendo: lavorare a coppie è più semplice ed efficace che lavorare a grandi gruppi.

Passiamo ora a un’altra criticità dell’apprendimento cooperativo: la formazione dei gruppi. La formazione dei gruppi è un aspetto spesso sottovalutato, ma che può creare problematicità non indifferenti. Si può optare per gruppi omogenei oppure eterogenei. Secondo la ricerca, tuttavia, creare gruppi eterogenei permette di ottenere risultati migliori in termini di apprendimento.

In genere, i gruppi eterogenei presentano una serie di vantaggi.
I gruppi composti da studenti con background, capacità e interessi diversi espongono gli studenti a molteplici prospettive e metodi di risoluzione dei problemi e generano un maggiore squilibrio cognitivo (necessario per stimolare lo sviluppo intellettivo e l’apprendimento degli studenti). Nei gruppi eterogenei tendono ad esserci una maggiore riflessione ed elaborazione, un più fitto scambio di spiegazioni e una maggiore apertura prospettica nella discussione del materiale, tutti fattori che favoriscono una comprensione più approfondita, la qualità del ragionamento e l’accuratezza della ritenzione mnemonica a lungo termine.
Quando gli studenti selezionano da sé i loro gruppi, di solito formano gruppi omogenei.

(Johnson, Johnson & Hobulec, pp. 43-44)

La procedura meno raccomandata è quella di lasciare che gli studenti formino da soli i gruppi. Si riscontra spesso un impegno minore da parte degli studenti [adottando questa strategia, ndr]. Una soluzione è far compilare agli studenti delle liste [segrete, ndr] di compagni con i quali desidererebbero lavorare e poi metterli in un gruppo di apprendimento con una persona di loro scelta e uno o più studenti selezionati dall’insegnante.
(Johnson, Johnson & Hobulec, p. 47)

Se i sostenitori dell’apprendimento cooperativo non evitano di evidenziare alcune delle criticità di un simile approccio, Susan Cain va oltre e mette in evidenza criticità che in molti ignorano.

Il punto di vista di Susan Cain: e chi è introverso, come fa?

Tra le criticità dell’approccio cooperativo, è giusto prendere in considerazione anche quanto segue: le classi sono composte da bambini sia estroversi che introversi, di norma in pari misura.

Cain nel suo libro Quiet critica piuttosto fortemente l’ideale dell’estroversione che viene imposto nella nostra società, persino in ambito scolastico. Ciò che spesso ci dimentichiamo è quanto segue:

“Gli introversi ricaricano le batterie stando da soli, gli estroversi hanno bisogno di ricaricarsi se non socializzano abbastanza.”
(Cain, p. 23)

È giusto quindi penalizzare chi è introverso e spingere tutti ad essere estroversi?

Il capitolo tre “Quando la collaborazione soffoca la creatività. La forza del lavoro in solitudine” del bestseller di Susan Cain è uno dei capitoli più interessanti che abbia letto negli ultimi 10 anni.

Cain porta esempi di persone straordinarie che hanno necessitato del lavoro in solitudine per poter eccellere (Albert Einstein e Stephen Wozniak), e dimostra come gli open space riducono la produttività e danneggiano la memoria, rendono le persone più esposte alle malattie, ostili, scarsamente motivate e insicure. Chi lavora in open space deve spesso subire rumori fastidiosi, il che aumenta la frequenza cardiaca e lo stress. Un eccesso di stimoli sembra inoltre ostacolare l’apprendimento. Cain fa in seguito presente come il brainstorming di gruppo non funziona in modo ottimale per più motivi: il social loafing (all’interno di un gruppo, un individuo può essere indotto a poltrire lasciando che siano gli altri a sobbarcarsi l’onere del lavoro), il blocco di produzione (solo una persona alla volta può parlare o produrre un’idea, mentre gli altri membri del gruppo sono costretti all’inattività), l’apprensione per la valutazione (la paura di fare brutte figure agli occhi dei pari, il timore insomma dell’umiliazione pubblica), il condizionamento da parte del gruppo (all’interno di un gruppo si nota la tendenza a uniformarsi, la pressione del gruppo è in grado di alterare il punto di vista degli individui).

Soggetti motivati e di talento è meglio incoraggiarli a lavorare da soli, se le priorità sono efficienza o creatività“.
(Adrian Furnham)

Sono un cavallo fatto per tirare da solo, non mi sento tagliato per lavorare in tandem o in gruppo, perché so benissimo che per raggiungere un determinato obiettivo è fondamentale che sia la stessa persona a pensare e a decidere.
(Albert Einstein)

La maggior parte degli inventori e degli ingegneri che ho conosciuto mi assomigliano: sono timidi e vivono nella loro testa. Sembrano quasi artisti. Anzi, i migliori sono artisti. E gli artisti danno il meglio di sé quando sono soli, quando possono controllare il progetto di un’invenzione senza avere tra i piedi qualcuno che provi ad adattarlo per le esigenze del marketing o di chissà quale altro ufficio. Sono convinto che nulla di realmente rivoluzionario sia stato inventato con il lavoro di squadra. Se sei quel raro ingegnere che è inventore e artista insieme, voglio darti un consiglio che forse troverai difficile da accettare. Il consiglio è: lavora da solo. È così che ti troverai nella condizione ideale per progettare oggetti o dispositivi rivoluzionari. Non in gruppo. Non in team.
(Stephen Wozniak)

In molti campi, soltanto quando sei da solo puoi esercitarti con rigorosa applicazione, quello che Anders Ericsson chiama “deliberate practice” e che permette di raggiungere l’eccellenza. Chi si esercita in solitudine, riesce a individuare quali sono i limiti che può superare, si impegna a migliorare la prestazione, verifica i progressi e interviene di conseguenza. Le sedute di allenamento al di sotto di questo standard non sono soltanto meno utili ma addirittura controproducenti. Il deliberate practice si svolge al meglio in solitudine per diverse ragioni: richiede concentrazione profonda, e gli altri possono essere fonte di distrazione; richiede anche una motivazione profonda, che spesso ha un’origine interiore; ma significa soprattutto lavorare sugli aspetti che risultano più ostici. Soltanto nella solitudine, puoi dedicarti a ciò che è più impegnativo per te. Se vuoi migliorare, quello scatto dev’essere generato da te stesso. Cosa che in una lezione di gruppo, per esempio, capita solo molto raramente.
(Cain, p. 111)

Il punto di vista che porta avanti Susan Cain non può essere accantonato tanto in fretta. Lei stessa fa presente che esistono forme di collaborazione che risultano efficaci, come ad esempio il brainstorming online.

Se oppurtunamente gestiti, i gruppi che fanno brainstorming in Rete non solo ottengono risultati migliori rispetto ai singoli individui, come dimostrano le ricerche, ma migliorano la performance al crescere della dimensione del gruppo. Lo stesso dicasi per la ricerca accademica: i docenti che collaborano via Internet, da luoghi fisici diversi, tendono a produrre ricerca di più alto livello rispetto a chi lavora da solo o collabora faccia a faccia.
Tuttavia, la potenza di queste collaborazioni ci ha impressionato al punto da indurci a sopravvalutare tutti i lavori di gruppo a scapito della riflessione individuale. Non ci accorgiamo che partecipare a un gruppo di lavoro online è a sua volta una forma di solitudine e diamo invece per scontato che il successo delle collaborazioni virtuali si trasferirà identico anche in quelle faccia a faccia.

(Cain, pp. 120-121)

Le conclusioni di Susan Cain non sono in realtà tanto radicali, anzi. Ammette l’importanza di educare alla collaborazione, soprattutto in ambito scolastico. La sua richiesta è semplicemente di mantenere una certa varietà.

La ricerca mostra che le squadre più efficaci, ivi comprese molte strutture del governo, sono composte da un sano mix di introversi ed estroversi. Le nostre scuole dovrebbero insegnare ai bambini le competenze per lavorare con gli altri – l’apprendimento collaborativo può essere utile se praticato nella maniera corretta e con moderazione – ma anche assicurare tempo e addestramento per l’indispensabile studio in solitudine.
(Cain, p. 126)

In conclusione, proporre giochi da tavolo cooperativi sembra essere l’opzione migliore nell’ambito della scuola dell’infanzia e della scuola elementare, partendo da attività a coppie eterogenee stabilite dal docente. Prevedere forme di gioco solitario invece può essere importante per allenare lo studio in solitudine. Dato che a scuola bisogna insegnare anche a gestire la competizione, adottare giochi a squadre, senza dar peso alla vittoria e alla sconfitta, può essere un’opzione valida (come introduzione graduale ai giochi competitivi). Bisogna tuttavia assolutamente assicurarsi che gli allievi mantengano una mentalità di crescita e uno spirito di collaborazione anche durante i giochi competitivi, fondamentali per un apprendimento più efficace.

Il vero vincitore non è colui che vince sempre, ma colui che perde e continua ad avere il coraggio di mettersi in gioco cercando di imparare dai propri errori.

Bibliografia e consigli di lettura

  • John Hattie, Visible Learning for Teachers. Maximizing Impact on Learning, Routledge, 2012.
  • Angelica Moè, Il piacere di imparare e di insegnare. Pensieri, ambienti e persone motivanti, Mondadori, 2019.
  • Roberto Trinchero, Costruire e certificare competenze con il curricolo verticale nel primo ciclo, Rizzoli, 2017.
  • David W. Johnson, Roger T. Johnson e Edythe J. Hobulec, Apprendimento cooperativo in classe. Migliorare il clima emotivo e il rendimento, Erickson, 2016.
  • Susan Cain, Quiet. Il potere degli introversi in un mondo che non sa smettere di parlare, Bompiani, 2016.
  • Il Piano di studio della scuola dell’obbligo ticinese, 2015 e 2022.
  • Carol Dweck, Teorie del sé. Intelligenza, motivazione, personalità e sviluppo, Erickson, 2000.
  • Carol Dweck, Mindset. Cambiare forma mentis per raggiungere il successo, FrancoAngeli, 2023.
  • Anders Ericsson e Robert Pool, Peak. Secrets from the New Science of Expertise, Eamon Dolan, 2016.

Giochi da tavolo legati al Giappone

Una volta all’anno, a Bellinzona, ha luogo il Japan Matsuri.

Il Japan Matsuri è un festival giapponese che si svolge nella Svizzera italiana, durante il quale il pubblico si immerge in un mondo affascinante e lontano, tra tradizione e modernità legate alla cultura giapponese.

Noi di Giochintavola, associazione ticinese di giochi da tavolo, siamo ospiti di vecchia data di questo festival e presentiamo ogni anno giochi da tavolo legati al Giappone (senza avere uno scopo di lucro, ma per semplice passione).

Quando si parla di giochi da tavolo legati al Giappone, si possono intendere varie cose: giochi di autori giapponesi, giochi pubblicati da case editrici giapponesi, oppure giochi ambientati in Giappone.

La casa editrice giapponese più famosa a livello internazionale è la Oink Games. Questa casa editrice propone giochi brevi in scatole minute. I titoli più blasonati sono:

Un’altra casa editrice giapponese che sta prendendo piede anche al di fuori del Giappone è la itten games. Tra i titoli di questa casa editrice troviamo:

Con il suo stile delle illustrazioni inconfondibile, la casa editrice Saashi & Saashi ha anch’essa la sua cerchia di fan occidentali:

Autori di giochi da tavolo giapponesi particolarmente noti alle nostre latitudini non ce ne sono. Esistono però alcuni titoli creati da autori giapponesi che hanno riscosso parecchio successo anche in Europa. Tra i titoli più importanti abbiamo:

Passiamo infine all’ultima categoria: i giochi da tavolo ambientati in Giappone. Qui la lista è lunga, perché tale ambientazione è in generale piuttosto gettonata. Tra i titoli con una durata medio-corta abbiamo quanto segue:

Tra i giochi da tavolo lunghi e impegnativi, abbiamo invece quanto segue:

  • Sekigahara: The Unification of Japan
  • Nagashino 1575 & Shizugatake 1583
  • Sekigahara 1600
  • Ikusa
  • Shogun di Henn
  • Bitoku
  • Nippon
  • Iki
  • Shogun no Katana
  • Rising Sun

In definitiva, quando si parla di giochi da tavolo legati al Giappone, le opzioni sono davvero tante e chiunque può trovare qualcosa nelle sue corde.

P.S.:
Un interessante articolo di approfondimento sul minimalismo giapponese legato ai giochi da tavolo lo si può trovare qui: Japanese minimalism di Bruno Faidutti.
Per farsi un’idea dei tanti giochi indie giapponesi esistenti che non arrivano di norma da noi, si può consultare questa geeklist di boardgamegeek: Bringing japanese games to boardgamegeek.